Storia di una piccola, grande fabbrica di parole

Devi avere il tuo stile, lascia perdere gli altri: scrivi. Leggi, impara e scrivi.

Uno di quegli insegnamenti che vale oro. Semplice, breve e dato da una persona che stimi. Niente di più.

Foto di susivinh

In poco meno di due anni Luana è riuscita a darmi molto, moltissimo. Mesi di redazione in cui ho imparato a farmi le ossa, ad essere sintetico. Striminzito ed essenziale con la fuffa politica, attento e prolisso con le storie da raccontare, con le facce da descrivere, le persone da capire e la fame di vita da trasmettere.

Vai per strada, non ti voglio qui.

L’agitazione di due ragazze madri che occupano una casa in via Carducci, senza soldi, abbandonate dai compagni, in cerca di disperato ascolto; la rabbia di una famiglia a pezzi per aver appena perso il figlio diciottenne e che di parlare non ci pensa nemmeno; i ragazzi del Mayer in libertà dalla schiavitù delle cure perenni; le condizioni incredibili delle famiglie che abitano a Palazzo Coppedè.

Ma anche le cinque ore di traversata in mare su Goletta Verde per un blitz che mi costò un’ustione e la figura col prof di quello che se ne va al mare invece di scrivere la tesi; per non dimenticare la cronaca dell’addio ad Anna Maria Rimoaldi, la “signora dello Strega”; come la prima bianca pura: il consiglio comunale di Portoferraio, quando Rifondazione uscì dalla giunta. Non avrei tirato fuori una riga se non fosse stato per l’accoppiata Elena e Luana.

Tutto da ridere poi quando scrissi dell’estasi eucaristica che il parroco provò di fronte al coro gospel in Duomo. Il commento fu un unico: “fai schianta’”.

Episodi che non dimenticherò mai, situazioni che ripenso continuamente ogni volta che scrivo e che ho vissuto grazie all’esperienza in redazione.

Mi piaceva la strada. Ne ho fatta poca purtroppo, il territorio era piccolo, le notizie d’estate tante e su quella scrivania c’era da starci. Seduto a guardare uno schermo con l’ansa che scorre, le email dell’ufficio stampa che arrivano e le ore di telefonate per uno straccio di bianca. E per amore del mestiere, non certo per soldi.

Luana lo sapeva, per questo mi dava consigli, mi cazziava e spesso mi costringeva a rimanere in redazione fino a che non riuscivo a fare un pastone, finire un corsivo o scrivere quella maledetta breve. Sapeva che di lì dovevo uscirne almeno con il mestiere in mano.

Ma rimanevo volentieri, si parlava un po’ di politica, ci si scambiava due battute su Kapuscinski e sul Nardelli, assiduo frequentatore di processioni ecclesiastiche elbane che si addormentava fisso in redazione, proprio lì al “mio” posto, quello dello stagista. E non potevo far più nulla.

Kapuscinski l’ho conosciuto grazie a lei, così come la storia di Passannante. Poi son salito di grado: “collaboratore”. Sembra una cosa figa, invece stai sempre lì a prendere due noccioline al mese.

Anche questo sapeva Luana, così ogni volta che mi chiedeva di far tardi si sentiva quasi in colpa. Ma rimanevo volentieri, adesso avevo cambiato postazione e potevo scrivere senza svegliare Nardelli.

La sera eravamo così in tre: il capo, il collaboratore e l’inviato dalle curie. Un trio, un programma.

Una scuola questa piccola fabbrica di parole in viale Elba che è valsa la pena fare e per la quale non ho mai avuto modo di ringraziare Luana.

Nel mio piccolo provo a ringraziarla così.
Era molto che pensavo a questo post. Forse mesi. Volevo fosse il mio ricordo per Luana, un ricordo che prima non ho mai voluto lasciare indelebile in Rete, complice anche la poca voglia di esprimere situazioni personali in pubblico e la volontà di evitare una facile retorica.

Ora, a distanza di anni, ho pensato fosse il momento migliore per fissare da una parte quanto mi ricordassi dell’esperienza in redazione con Lu’. Con l’amaro in bocca per non aver avuto mai l’occasione di conoscerla ancora di più.

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